Da nord a sud per lavorare: l'effetto pandemia ha in molti casi invertito il flusso degli spostamenti come tradizionalmente conosciuto. Secondo una indagine realizzata da Datamining per conto della Svimez, l'Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno, il cosiddetto "South Working" vede 45mila addetti che da marzo sono in smart working dal Sud per le grandi imprese del CentroNord. Ne sono state analizzate 150, ma se si tiene conto anche piccole e medie (difficili da rilevare) si stima che il fenomeno potrebbe aver riguardato circa 100milalavoratori meridionali sui due milioni generalmente occupati nel centro-nord. Secondo l'associazione "South working - Lavorare dal Sud", che ha contribuito al rapporto, 1'85,3 per cento degli intervistati (il campione è di 2mila) andrebbe o tornerebbe avivere al Sud se fosse possibile mantenere il lavoro da remoto. Circa l'80% hatrai 25 e i 40 anni, con alti titoli di studio, principalmente in ingegneria, economia e giurisprudenza, e ha nel 63% dei casi un contratto di lavoro a tempo indeterminato. La maggior parte delle aziende intervistate ritiene che i vantaggi siano la maggiore flessibilità negli orari di lavoro e la riduzione dei costi fissi delle sedi fisiche. Ma, allo stesso tempo, teme la perdita di controllo sul dipendente, il necessario investimento da fare a carico dell'azienda e i problemi di sicurezza informatica. Tra i vantaggi per i lavoratori, ci sono il minor costo della vitae le abitazioni abasso costo. Fra i contro, i servizi sanitari e di trasporto di minor qualità, poca possibilità di far carriera e minore offerta di servizi per la famiglia. "Il South working' - ha detto Luca Bianchi, presidente di Svimez - potrebbe rivelarsi un'interessante opportunità per interrompere i processi di deaccumulazione di capitale umano qualificato iniziati da un ventennio e che stanno compromettendo lo sviluppo delle aree meridionali e di tutte le zone periferiche del Paese".

VIRGINIA DELLA SALA
Fonte il Fatto Quotidiano